Nature-Deficit Disorder


1.

Tra i tanti disturbi che vengono frettolosamente etichettati come malattie del cervello, finalmente ne è stato proposto uno che si può ritenere serio e scientificamente convalidabile, per quanto l’autore lo ha identificato intuitivamente. L’autore in questione, per fortuna, non è uno psichiatra. Si tratta di Richard Louv, un eclettico giornalista che dedica da tempo gran parte della sua attenzione al mondo dell’infanzia. Dopo numerosi libri scritti a riguardo, l’ultimo (Last Child in the Woods: Saving Our Children from Nature-Deficit Disorder; trad. it. L'Ultimo Bambino nei Boschi Come riavvicinare i nostri figli alla natura Rizzoli 2006) è diventato rapidamente un best-seller, vendendo in un anno negli Stati Uniti trecentomila copie.

Consiglio la lettura del libro, ma, per facilitare il discorso, riporto in appendice due interviste consesse da Louve, una in inglese e una in italiano.

Come capita spesso nella storia della cultura, i pensieri originali, soprattutto in riferimento alla condizione umana, nono sono necessariamente geniali. Richard Louv sostiene, semplicemente, che l’isolamento dei bambini rispetto alla natura, in gran parte dovuto al processo di urbanizzazione e alla tendenza a vicariare l’isolamento domestico con l’uso di strumenti mediatici, può essere la causa di frequenti disturbi di vario genere (dalla depressione all’ADHD o addirittura all’autismo). Le prove scientifiche che egli porta per alimentare la sua tesi sono poche, anche se significative, dato che la pedagogia e la psicologia evolutiva non hanno dedicato che una modesta attenzione al bisogno di contatto con la natura, privilegiando le relazioni affettive interpersonali.

Senza essere riuscito a scrivere un best-seller – il cui segreto è puntare su di un solo argomento che può catturare l’opinione pubblica -, posso tranquillamente affermare di avere anticipato la tematica affrontata da Louv in almeno due articoli.

In La riscoperta della natura, che risale al 2003, ho scritto:

“Fa parte dell'esperienza comune che il contatto sensoriale con la natura ha un effetto distensivo e benefico. Non si tratta solo di un effetto antistress. E' probabile che esso aumenti anche la produzione delle endorfine se è vero che, esponendosi al sole, guardando un paesaggio, immergendosi nell'acqua o distendendosi su di un prato, non solo la tensione si dissolve, ma sopravviene spesso un'ondata di benessere intensa e inesprimibile.

Questa esperienza cela significati piuttosto complessi. Essa attesta un legame psicobiologico dell'uomo con l'ambiente naturale che sembra facile da interpretare se si considera che egli è vissuto di fatto per migliaia e migliaia di anni in una condizione di costante interazione con l'ambiente naturale, minimamente modificato dall'attività antropica. Si tratterebbe dunque di un condizionamento che probabilmente sopravvive a livello inconscio sotto forma di memoria ancestrale. Una prova a favore dell'ipotesi del condizionamento è fornita dall'attività onirica che spesso si realizza attraverso la messa in scena di ambienti naturali.

Un'ipotesi alternativa è che il contatto con la natura rappresenti un bisogno sensoriale e emozionale primario, subordinato nella sua intensità al bisogno di contatto interpersonale, ma non meno necessario. Questo bisogno rappresenterebbe l'espressione più immediata dell'origine evoluzionistica del cervello umano, che lo avrebbe ereditato dagli animali…

Le capacità adattive della specie umana sono straordinarie, ma ciò non significa che l'adattamento sia sempre positivo e innocuo. L'adattamento allo stile di vita urbano è stressante non solo in conseguenza dell'affollamento, del traffico e dei ritmi di lavoro. Esso probabilmente incide anche perché comporta una separazione dalla natura che mortifica un bisogno primario sensoriale e psicosomatico. L'assuefazione dell'adulto alla vita urbana e domestica rende impercettibile questo bisogno, anche se si può ritenere che alcuni fenomeni comuni, come la stanchezza, l'irrequietezza, l'insonnia, siano, almeno in parte, riconducibili alla sua frustrazione. Non è per caso, forse, che nell'800, quando ancora non esistevano gli psicofarmaci, si prescriveva come cura degli "esaurimenti nervosi" la campagna, la collina e le passeggiate nei boschi.

Se il bisogno di contatto con la natura è un bisogno primario, non è sorprendente che esso possa essere rappresentato in maniera più intensa e immediata nei bambini. La ricerca psicobiologica dovrebbe indirizzarsi in questa direzione sulla scorta di dati indiziari che è difficile minimizzare.

E' noto a tutti i genitori l'effetto terapeutico che esercitano il verde, la terra, il vento, il sole, l'acqua sui bambini. Si scalmanano - è vero - ma, dopo l'immersione nella natura, oltre che stanchi, sembrano recuperare una tranquillità e un equilibrio che, tra le pareti domestiche, spesso viene meno. Talvolta, si realizza l'effetto contrario: dopo un contatto prolungato con la natura, appaiono irrequieti fino al punto di stentare ad addormentarsi. Probabilmente si tratta della conseguenza di un'iperstimolazione del sistema nervoso. Esiste, probabilmente, un optimum di equilibrio del bisogno di contatto con la natura.

A che cosa è dovuto questo bisogno? Di solito si pensa che in un ambiente naturale i bambini si sentano semplicemente più liberi di quanto accade tra le pareti domestiche o nelle aule scolastiche. C'è del vero ma non fino al punto di spiegare il singolare effetto che si realizza.

Un'ipotesi che sinora mi sembra nessuno ha avanzato è che le modalità di rapporto sensoriale dei bambini con il mondo, prima che sopravvenga l'assuefazione culturale, siano diverse rispetto a quelle degli adulti. La loro capacità di godere di stimoli visivi, olfattivi, tattili, ecc. potrebbe essere molto più intensa, partecipe, significativa.

Se non è vero in assoluto che l'ontogenesi, lo sviluppo individuale, ricapitola la filogenesi, lo sviluppo della specie, per questo aspetto potrebbe essere vero. L'uomo non è un animale come gli altri, ma indubbiamente è un animale e, per quanto l'affettività e la socialità abbiano un'importanza essenziale, è probabile che il rapporto vivo, diretto con la natura non abbia, almeno durante l'infanzia, un'importanza minore.

L'ipotesi permetterebbe di capire perché l'allevamento in regime di separazione dalla natura, che è proprio della vita urbana, se anche avviene in un contesto affettivo ottimale, frustra un bisogno primario determinando degli effetti disfunzionali in termini di malessere, irrequietezza, insonnia, ecc.”

Nel secondo articolo (Appunti sull’allevamento dei bambini), che risale al 2004, ho scritto:

“Il discorso sul sonno può essere anche generalizzato per pervenire a conclusioni più radicali. Tutti i genitori sanno l’effetto magico che ha sui neonati e sui bambini il contatto con la natura: il verde, l’aria, l’acqua. Ciascuno di noi può sperimentare che questa magia si realizza anche a livello adulto. L’ambiente naturale distende, rinvigorisce, euforizza.

Tutto ciò non è sorprendente, se si tiene conto che l’umanità è vissuta per il 99% della sua storia a contatto con la natura. La separazione intervenuta in seguito all’urbanizzazione ha posto in luce le straordinarie capacità adattive della specie umana. Per quanto straordinarie, però, tali capacità non sono infinite. Lo stress epidemico che pervade il nostro mondo ha cause molteplici: tra questa però non minimizzerei affatto il vivere in cattività, in contesti urbani inquinati e poveri di verde, in abitazioni rigidamente segregative, ecc.

I neonati, ovviamente, non soffrono di stress, se non di riflesso rispetto a quello genitoriale. E’ probabile però che, eredi di un’antichissima tradizione, essi risentano della separazione dalla natura più degli adulti. Anche se non esistono studi a riguardo, non è affatto azzardato ammettere che il loro sistema nervoso comporti un’appetizione per gli stimoli naturali - olfattivi, termici e tattili in particolare, - molto più sviluppata che negli adulti, che sono assuefatti ad un ambiente artificiale.

Ciò significa, né più né meno, che nutrirli, lavarli, curarli, vezzeggiarli è importante, ma non meno importante è riconoscere quell’appetizione e, nei limiti in cui è possibile, soddisfarla.”

2.

Torno sull’argomento con l’intento di approfondire alcuni aspetti neurobiologici e psicologici.

Dal punto di vista neurobiologico, non conosciamo molto (e forse non ne conosceremo mai abbastanza) sulle modalità di funzionamento del cervello infantile. Alcuni dati acquisiti sono però significativi. La crescita dei neuroni raggiunge il suo massimo (100 miliardi!) nel corso del quarto mese di vita fetale. Da questo momento in poi si avvia un processo di morte quotidiana di un certo numero di neuroni, che si mantiene costante nel corso della vita (tranne che non sia vertiginosamente accelerato da processi degenerativi: arteriosclerosi, Alzheimer) e non incide sulla funzionalità del cervello perché, alla morte di alcuni neuroni, corrisponde una produzione di sinapsi che giungono a rappresentare una sorta di foresta intorno ad essi.

Nessuno ovviamente sa perché la crescita dei neuroni si completi al quarto mese, quando l’interazione con l’ambiente è ridotta al minimo, e perché si avvii e si mantenga la morte di una parte di essi.

Al quarto mese è possibile registrare anche l’entrata in azione di un’attività neuronale di singolare intensità (attestata dai ritmi rapidi o rapidissimi delle onde elettroencafalografiche). Dato che tale attività non può essere interpretata come una risposta a stimoli che sono scarsissimi, si ritiene che essa abbia una natura intrinseca, che rappresenti cioè l’espressione di una programmazione genetica, tale per cui determinati circuiti neuronali entrano in azione spontaneamente, senza la necessità di stimoli esterni.

Riguardo al significato dell’attività intrinseca, non c’è accordo tra gli studiosi. Secondo alcuni, essa rappresenterebbe solo un modo per “testare” le connessioni neuronali e ad assicurare ad esse una certa plasticità. Le connessioni motorie sarebbero poi attivate in maniera tale da promuovere l’esercizio dei muscoli, in difetto del quale il neonato si ritroverebbe con un apparato muscolare atrofizzato.

A questa ipotesi, neurofisiologica, si oppongono coloro i quali ritengono che all’attività intrinseca non possa non corrispondere qualche “contenuto” psichico che scorre attraverso i neuroni. Escludendo per ovvi motivi contenuti cognitivi si può pensare solo ad un’attivazione emozionale che assicurerebbe al feto una sorta di benessere psicosomatico e, in qualche misura, lo proteggerebbe da situazioni ambientali negative (stati d’animo materni, rumori violenti, ecc.).

Come che stiano le cose, ciò che sembra certo è che il cervello umano è una “macchina” di straordinaria potenza, il cui funzionamento non dipende del tutto dall’ambiente.

Occorre aggiungere anche un altro dato. La potenza della “macchina” è tale che richiede anche validi sistemi di protezione. Non è un caso che, dei cento miliardi di neuroni, la metà svolga una funzione inibitoria, tenda cioè ad inibire piuttosto che a favorire il passaggio degli impulsi. Non è neppure un caso che un neonato sia immerso per gran parte della giornata, fino ad un anno di vita, nel sonno, come pure che, vita naturale durante, un terzo del tempo da vivere sia dedicato al riposo (peraltro relativo) del cervello.

Che significa tutto questo?

Che l’infante viene al mondo prematuro e, oltre ai sistemi di protezione naturale, ha bisogno anche di un ambiente umano e affettivo che si prenda cura di lui e regoli l’impatto con l’ambiente esterno. Già, ma con quale ambiente?

Qui nasce il problema. Di solito, infatti, l’ambiente in cui si trova a crescere un bambino nella nostra società è quello domestico, dal quale esce, se il tempo lo permette, solo una o due ore al giorno. L’ambiente per il quale è stato, invece, strutturato il cervello è quello naturale, a contatto con il quale l’umanità è vissuta per il novantanove per cento della sua storia. E’ oltremodo difficile pensare che questa esperienza non abbia lasciato alcuna impronta nella struttura cerebrale sotto forma di un bisogno primario di contatto con la natura.

Gli adulti sono animali addomesticati e adattati all’ambiente urbano. Non è detto che essi non soffrano della separazione dalla natura: se ne soffrono, però, non se ne rendono conto, essendo assuefatti alla civilizzazione.

Il fatto che essi trattino i neonati e i bambini come esseri già addomesticati è un errore.

Ci si può chiedere naturalmente in quali termini si può descrivere un bisogno primario di contatto con la natura. L’ipotesi più probabile è che, sulla base di una soglia percettiva agli stimoli ambientali che rimane piuttosto elevata nel corso del primo anno di vita, si dia viceversa una soglia abbassata e selettiva per gli stimoli naturali (gli odori, il sole, il vento, lo stormire delle foglie, il canto degli uccelli, ecc.).

E’ un’esperienza comune che i bambini portati in un parco si tranquillizzano e spesso si abbandonano al sonno. Non è affatto azzardato che. Al di là della protezione assicurata dalla madre in carne ed ossa, essi sperimentino una sorta di abbandono alla Grande Madre naturale.

Se questo è vero per il primo anno di vita, il bisogno di contatto con la natura rimane vivo anche al di là di esso. Tutti i genitori comprano per i loro figli libri e DVD strapieni di animali e di piante, sicuri che essi suscitano l’interesse dei figli. Quasi nessuno sembra interrogarsi su questo interesse fino al punto di decifrare in esso un bisogno che dalle figure e dalle immagini viene surrogato e non può assumere una valenza interattiva di esplorazione di conoscenza.

I genitori rimangono solitamente perplessi anche dalla curiosità quasi temeraria che i bambini manifestano nei confronti degli animali e dell’attaccamento quasi morboso che alcuni di essi manifestano nei confronti di cani o gatti domestici.

E’ veramente curioso che i residenti in città, che non vedono l’ora di andare al mare, in montagna o in campagna per il week-end e per le vacanze, considerino quest’abitudine come un normale modo di alleviare lo stress della vita quotidiana e raramente si rendano conto che esso esprime un bisogno di contatto con la natura che sopravvive all’assuefazione alla civilizzazione.

3.

Il nature deficit disorder, a mio avviso, incide anche a livello adulto. Almeno una componente dei fenomeni, tipici della popolazione urbana, ricondotti solitamente allo stress (ansia, depressione, astenia, insonnia, ecc.) sono da attribuire alla frustrazione del bisogno di contatto con la natura. Non è un caso forse che molteplici soggetti, quando la nuvolaglia incombe e impedisce anche di mantenere il contatto con uno spicchio di cielo azzurro, cadono in uno stato di malumore e di prostrazione. Non è un caso che tante persone non possono fare a meno di coltivare sulla terrazza o sul balcone delle piante. Non è un caso, infine, che nelle città il numero di animali domestici cresce di continuo.

Si tratta di un bisogno ancestrale, ereditato geneticamente e depositato nelle viscere della mente umana.

Alla luce di questo, si può capire meglio l’enorme violenza esercitata dalla nascita dell’industrializzazione, che, nel corso dell’800, sradicò enormi masse di contadini dalla terra costringendoli a vivere in orribili suburbi. Una violenza che, senza sosta, si ripete in tutti i paesi che imboccano la via dell’industrializzazione.

Per quanto riguarda i bambini, il nature deficit disorder è una realtà poco confutabile. Negli articolo che ho scritto, ho avanzato l’ipotesi che almeno una quota dei disturbi del sonno, così frequenti oggi nei neonati, sia da ricondurre, oltre che all’ansia delle madri, ad una deprivazione di stimoli naturali, compresi quelli luminosi che segnalano l’avvicendarsi del giorno e della notte. Non sono in grado di portare alcuna prova a favore di questa ipotesi.

Molto più rilevante è il fatto che l’irrequietezza psicomotoria di cui soffrono oggi molti bambini si dissolve quasi magicamente quando essi si trovano immersi in un contesto naturale, ove possono giocare con la terra, i sassi, le piante e osservare dal vivo gli animali.

E’ inutile dire che il nature deficit disorder è accentuato, oltre che dall’ingabbiamento domestico, anche dall’internamento istituzionale precoce nelle scuole materne e in quelle elementari.

Infine, non si può non considerare che la separazione dalla natura, se frustra in tutti i bambini un bisogno primario, probabilmente incide di più in quelli introversi, la cui emozionalità talora sembra rivolta più intensamente verso la natura che verso gli altri esseri umani. Tanto questo è vero che anche da adulti gli introversi raggiungono, immergendosi nel contatto con la natura, una condizione che rasenta l’estasi, e fa pensare che quel contatto incrementi la produzione di endorfine.

L’avvio, da parte di Louv, di una vasta campagna orientata sensibilizzare l’opinione pubblica su questo problema è indubbiamente meritoria. C’è da chiedersi, però, quali concrete possibilità essa abbia di cambiare lo stato di cose esistente se non interviene una riflessione profonda e articolata su quella che io chiamo la produzione antropologica. Nell’ambito di questa riflessione occorrerà riequilibrare il peso dei vari fattori che ad essa concorrono. La psicologia ha giustamente sottolineato l’importanza di quelli affettivi. Essa, però, ha del tutto trascurato che l’emozionalità umana riconosce, tra i suoi referenti, oltre agli esseri umani, anche la natura.

 

Appendice

Intervista a Richard Louv

 

What led you to this particular subject?

This is my seventh book, and the second was called Childhood's Future. I went across the country to interview 3,000 parents and kids about the landscape of family life, which was radically changing. One theme that surprised me was this sense that something profound was changing in the relationship between children and nature.

One little boy said the reason he preferred playing indoors was that's where all the electrical outlets are. I heard that kind of thing over and over. And the parents were saying, "I don't understand -- how come the kids won't go outside?" The chapter I wrote about it got picked up by Sierra Magazine and Utne Reader.

Over the years I did some other books, but I kept watching the research on this. The empirical evidence for the split between children and nature is thin because longitudinal studies don't exist for the most part. Nobody thought to ask the question. We always assumed this relationship [between kids and nature] would be ongoing. Some of the researchers were referring to my chapter as anecdotal evidence, and I thought, if I'm an expert on this we're really in trouble.

What we do have is circumstantial and anecdotal evidence. We know what kids do: 44 hours a week plugged into electronic media, more time in the car, organized sports, all of that. We know what our own eyes and experience tell us.

 

What empirical research does exist?

There's empirical work measuring the radius kids tend to go away from their house. I think between 1970 and 1994 it shrunk to one-ninth of what it had been. There are a few studies like that.

But the really interesting research is linking nature to healthy child development. Oddly enough, this topic has not been studied. Now it's starting to be. A lot of it comes out of the biophilia hypothesis. In all the studies -- prisoners in prisons, people in the infirmary -- those who have a view of a natural landscape heal faster. Now they're observing kids playing on natural playgrounds, as opposed to concrete playgrounds. On a natural playground, children think more creatively and are much more likely to invent their own games and play more cooperatively.

There's research on attention-deficit disorder at the University of Illinois, ongoing studies showing that a little bit of exposure to nature decreases ADD symptoms -- even in kids as young as 5. The researchers suggest we add nature therapy to the other two traditional therapies: behavioral modification and Ritalin and other stimulants.

I would also turn it around and ask: Could it be that at least some of the huge increase in ADD has something to do with the fact we took nature away from kids?

While I plead guilty to romanticizing my childhood in the woods, this isn't an exercise in nostalgia. When you think about it, for tens of thousands of years children spent much of their childhood playing or working in natural settings. Within the space of two or three decades in Western society, particularly in the United States, that's in danger of ending. This is a radical change in a very short period of time. It's got to have important, perhaps profound implications for mental health, physical health, and spiritual health -- for who we are. We need to take the long view.

 

What forces have conspired to keep kids inside?

Obviously electronics are part of it. Video games and television are fun, and very distracting, and very convenient for parents. I'm not a Luddite. I love my Macintosh -- probably too much, as my wife will tell you. I don't think that video games are the spawn of the devil. I do think it's a little tough to have a sense of wonder while you're playing Grand Theft Auto (which, by the way, I played with my sons -- they've never let me forget that I tried to run over everything in sight).

When I first started interviewing parents, I thought access to nature would be the most important reason kids aren't going outside. The woods I played in as a kid, in the suburbs on the edge of Kansas City, have been bulldozed. But if you go to the new edge of Kansas City, it looks just like where I grew up. Kids can walk out their back door into the woods if they want. Parents there say the same thing: kids aren't going outside. So access is important, but it's not at the top of the list.

The No. 1 reason parents give is: they're scared. Of "stranger danger." Child abductions. That fear is changing our lives. The irony is, when you look at the statistics on abductions, almost all are by family members, and the number of abductions has been going down for about a decade. There's a Duke University study from last year that says kids are safer outside the home than at any time since the 1970s.

If those numbers are going down, what's going up? I'm afraid it's people in our profession. I like to think it's those TV guys, but it's also print media. You watch CNN or Fox or MSNBC and they take a handful of really terrible crimes against children and repeat them over and over and over again. When they get done telling us about the crime, they tell us about the trial over and over and over again. It's no accident people think there's a bogeyman on every corner. We're literally being conditioned to live in a state of fear, and this predates 9/11.

 

So parental anxiety is really No. 1 on the list?

Yep. One of the things that's pleased me is, right after the book came out I started getting emails from parents who have been getting their kids outdoors. One woman wrote and said they'd made a deliberate decision as to where they lived; their kids were spending every weekend in tents out in the woods behind their house, running in to get food and running back out. She wrote, "Now I know why I'm doing what I'm doing and why it's right."

A lot of parents have been getting their kids outdoors based on nostalgia or instinct, but didn't have that body of evidence. We're an evidence-based society. So that evidence is really affirming to parents who are getting social pressure. What do you mean Johnny isn't enrolled in Suzuki violin lessons? What do you mean you let your kids build a tree house? Don't you know they could fall out?

This gets into the issue of comparative risk. Pediatricians will tell you they're not treating very many broken bones in kids anymore. What they are seeing now are repetitive-stress injuries in children, which generally last a lot longer, sometimes permanently, compared to most broken bones.

 

I don't know if it's a human thing or an American thing, but people's risk assessment is just awful.

Some of it is parents and institutions: if there's one thing they're almost as scared of as strangers, it's strange lawyers. It's the litigiousness of the society that's probably the reason schools put up "no running" signs on the playground.

Early in the book I have a chapter called "The Criminalization of Natural Play." Add up all the federal, state, and local laws -- and all the well-meaning and probably necessary restrictions on kids picking up horny toads and the like. Then add to those the enormous increase in covenants, conditions, and restrictions -- about 75 million Americans now live in communities covered by these things, to different degrees. On the first day of the book tour, a woman told me that her community association had just outlawed chalk drawing on sidewalks -- which, you know, does lead to cocaine use.

Try to put up a basketball hoop in some of these communities, let alone build a tree house. The message to kids and parents is very clear: nature's in the past. It doesn't count anymore. The future's in electronics. The bogeyman lives in the woods. Playing outdoors is illicit and maybe even illegal.

I'll never forget the cover story in Parade several years ago: "Dangerous Invaders in Your Neighborhood." There was a picture of a raccoon on the cover.

 

Wait, are you defending raccoons, sir?

I am not now, nor have I ever been, a raccoon.

 

Most of what you cite are instrumental benefits: better at school, or more well-adjusted. Is that tactical?

That's what's been studied.

But there's a chapter near the end of the book called "The Spiritual Necessity of Nature for Children." The most important word in the book to me is "wonder." The root of all spiritual life is that early sense of wonder. When was the first time you had that sense of wonder? It may have been something simple: one of my first memories is watching the dust fall in front of a window. But I also remember going out and turning over rocks, and seeing a universe of bugs that lived underneath -- a parallel universe.

There is another world. When a child listens to the leaves in the trees, they sense something bigger than their parents' problems. That's more important than keeping grade averages up.

One of the things that's surprised me: I thought I would get some grief from conservative Christians over nature worship. It's a deep issue among very conservative Christians.

 

Paganism.

Yeah. And I took that seriously. Well, as it turns out one of the big proponents of the book is the president of the Southern Baptist Theological Seminary. Whatever one's spirituality, I think we all understand deep down that a sense of wonder is the beginning of it.

 

How can urban and suburban areas capture the benefits of getting kids outside?

Not every kid can go to Yosemite or the Cascades. There are kids in my home city of San Diego that haven't seen the beach. We have to do two things.

First, we have to look at how to increase the amount of nature in urban areas through green urbanism. It's more popular in Western Europe than here, but interesting, wonderful kinds of eco-cities are being designed. In fact, China's gonna outpace us on that. We need to bring nature into the city, erase the artificial line between urban and natural. I also have a speculative chapter called "Where the Wild Things Will Be" about the potential resettlement of Great Plains towns that have emptied out with new kinds of eco-towns. I know I'm out on a limb on that -- but that's where the best fruit is.

More simple than waiting for green architecture is what's called "nearby nature." Perhaps you have a ravine behind your house, or a little woods at the end of the cul-de-sac. That is hugely important to children. Adults sometimes can't see the importance of it because they expect nature to be so much bigger, but to that child, that ravine is a universe. Paying attention to that -- protecting those little spaces in cities -- is a step in the right direction.

In older cities there's often more nature than we suspect. Can you imagine a city building Central Park today? They're still finding new species in Central Park. In newer cities, everything is over-manicured, over-controlled. What is a kid supposed to do? I'm just as concerned about kids growing up in those kinds of neighborhoods as I am about inner-city kids.

 

There does seem to be a huge class-based gap in the amount of nature and unstructured play available.

I went with some gang members up to a nature preserve in the mountains near San Diego. These were really tough guys in their late teens, early 20s. They were with the Urban Corps and had been brought up to cut trails. The first morning in the woods, I realized these guys were terrified. People in these kinds of programs often report that phenomenon. One guy said, "It's too noisy out here." I said, "What are you talking about? You're from a neighborhood where you hear gunfire in the background." He says, "Yeah, but there's about four or five sounds in my neighborhood and I know what they all mean. There are a lot of sounds out here and they seem to mean something, but I don't know what it is."

Watching these young guys was wonderful -- as the day went on, the cynicism left their eyes and the flat affect fell from their faces. By the end of the day, these were 8-year-olds jumping over a creek. The people who work in these programs see that little miracle all the time. No kid in America or anywhere else should go without that miracle.

 

 

Paolo Pontoniere

Colloquio con Richard Louv

(Repubblica 22. 10. 2007)

Cosa è esattamente il nature deficit disorder?

"Per scrivere 'Childhood's Future', il mio secondo libro, avevo intervistato piu di 3 mila genitori e i loro bambini, e c'era un dato che emergeva costantemente: s'era verificato un cambiamento radicale nel rapporto tra i bambini e la natura. Molti bambini mi confessavano di preferire il gioco in casa, sedentario. Un ragazzo, in particolare, mi stupì dicendomi che preferiva giocare a casa perché sapeva dove si trovavano tutte le prese elettriche. Scrissi un articolo su questo fenomeno, esperti di pedagogia cominciarono a usarlo come prova dell'insorgere di un nuovo tipo di disturbo comportamentale".

 

Non le pare azzardato sostenere la Adhd e alcune manifestazioni dell'autismo possano dipendere da questa faccenda?

"Ricerche dell'Università dell'Illinois dimostrano che anche la minima esposizione all'ambiente naturale riduce significativamente i sintomi dei bambini affetti da Adhd. Ricerche condotte da Andrea Farber Taylor, Frances E. Kuo e William C. Sullivan dimostrano che più è naturale l'ambiente quotidiano di un bambino e più facile diventa gestire i sintomi dell'Adhd. E rilevano che giocare in spazi verdi induce pace, capacità di autocontrollo e autodisciplina nei bambini che provengono da zone urbane svantaggiate, un effetto particolarmente evidente nelle ragazze. Altri ricercatori, come Nancy Wells e Gary Evans, hanno invece confermato il fatto che i panorami verdi e la presenza di boschi riducono lo stress nei bambini, e che più denso è il verde e migliori sono i risultati che si ottengono. Non solo, ma dalle ricerche di Edward O. Wilson, il celebre sociobiologo di Harvard, emerge che i bambini che giocano in un ambiente naturale tendono a essere più creativi e collaborativi di quelli che giocano in ambiente urbano. Wilson inoltre ha notato che tra gli ammalati ospedalieri, coloro che godono d'una vista sulla natura guariscono con maggiore rapidità".

 

E sull'autismo, che evidenze ci sono?

"Terapie alternative che includono il contatto con la natura possono essere utilizzate per trattare le condizioni più disparate, e con grande efficacia. Il mio scopo però è quello di cercare nuove soluzioni praticabili per trattare i disturbi della personalità. Misure che vadano oltre la soluzione farmacologica, i Ritalin o i Prozac, e quella della terapia comportamentale. Viviamo in una società in cui i mondi artificiali esercitano un influenza preponderante e in cui facciamo a meno progressivamente dell'uso dei cinque sensi. Proviamo a riabilitarli. Troveremo le soluzioni".

 

Ne suo libro lei parla di una 'zoopolis' prossima ventura: che cos'è?

"Il termine lo ha coniato Jennifer Wolch, docente dell'università della Southern California, e indica una società nella quale la dicotomia tra elemento urbano e natura non esiste più. Dove i bambini sono incoraggiati a diventare attori della conservazione degli ecosistemi, a trarne vantaggio, a diventarne conoscitori. Una società così produrrebbe bambini più felici, più sani, più intelligenti, che giocano di nuovo sugli alberi, e migliorerebbe il tenore di vita degli adulti e la preservazione dell'ambiente". n

Ricerche ed Esperienze-pilota

 

Scuole all'aperto

I bambini che frequentano scuole con cortili più naturali e variegati sono maggiormente attivi, più coscienti della loro nutrizione, più cortesi e più creativi. Lo mostra un'indagine di Anne C. Bell e Janet E. Dyment: 'Promoting Physical Activity through School Ground Greening in Canada'.

 

Super-Io cercasi

Gli adolescenti che svolgono attività a contatto con la natura hanno una migliore immagine di se stessi, sono più confidenti, indipendenti e sono in grado di prendere iniziative autonome. Questi risultati positivi persistono nel corso degli anni, come mostrano Stephen Kellert e Vincent Derr in 'A national study of the wilderness experience'.

 

 

Einstein nel verde

Ricerche condotte in California dall'American Institutes for Research confermano che gli studenti delle scuole che conducono corsi di studio all'aperto registrano progressi significativi nelle scienze sociali, nelle scienze biologiche, le arti e la matematica. Una delle ricerche più recenti dimostra che i programmi scientifici all'aperto inducono un miglioramento del 27 per cento di coloro che vi partecipano.

 

Tutti in giardino

Louise Chawla della Kentucky State University ha dimostrato che esperienze positive con l'ambiente naturale ed essere portati da bambini nei parchi da persone care, sono i due fattori che più contribuiscono poi alla formazione d'una coscienza ambientalista.

Con la natura in casa

L'ultima cosa che Richard Louv si sarebbe aspettato era l'invito a tenere una conferenza dall'Associazione dei costruttori statunitensi. Proprio quelli che l'autore nel suo libro accusa di aver creato dei lager anti-bambino con i loro villaggi e i loro condomini. Non ha potuto che stupirsi, dunque, quando il presidente della Newland Communities, una delle maggiori imprese edili statunitensi, gli ha proposto di spiegare ai suoi colleghi cosa fossero le comunità biofiliche e come il loro sviluppo avrebbe creato complessi residenziali più vivibili per i bambini. Risultato: l'incontro ha segnato l'inizio d'una campagna nazionale diretta a spalancare le porte di casa e della natura ai bambini.

Ufficiosamente denominata 'No Child Left Inside Campaign', oggi l'iniziativa registra l'adesione di oltre 400 municipalità, tra cui città come San Francisco, San Diego, Los Angeles, Chicago e Cincinnati, che hanno approvato il cosiddetto 'No Child Left Inside Act', che impone alle scuole e agli istituti pubblici di organizzare programmi tesi a facilitare il contatto dei bambini con la natura.

La campagna è stata adottata anche dalle maggiori aziende Usa e dalle principali associazioni ambientaliste del Paese. Così corporazioni come DuPont, North Face, Travelocity e Disney hanno stretto un'alleanza con il Sierra Club, la National Audubon Society, la Turner Foundation e la National Wildlife Federation per dar vita a programmi dai nomi fantasiosi come il 'More Kids in the Woods', l''Healthy Families Play Outside Partnership' e il 'Life is Better Outside', che dall'Alaska al Texas si propongono di rimettere circa 75 milioni di persone - i bambini e le loro famiglie - in contatto con la natura.